Jos de Mul, Comprendere la natura. Dilthey, Plessner e la bioermeneutica. Lo Sguardo - rivista di filosofia. Vol. 14, no.1 (2014), 117-134.
Abstract: In recent years, authors like Chebanov, Markŏs, and Ginev have attempted to implement hermeneutic categories in the domain of biology. Against this background, the author takes Dilthey’s scattered remarks on the notion of the organic and Plessner’s biophilosophy as his starting point for the development of a biohermeneutical theory of biological purposiveness, which aims at bridging the gulf between the natural and the human sciences. Whereas the natural and human sciences are closely connected with a third-person and a first-person perspective respectively, the author argues that the second-person perspective plays a crucial role in the life sciences. In opposition to the natural sciences, in which causality is the key notion, and the human sciences, which rest on the notion of meaning, the author argues that the central concepts that characterize the second-person perspective of the life sciences are functionality and intentionality.
Nella Lebensphilosophie di Dilthey, l’antropologia e la storia sono strettamente connesse. Come lo stesso Dilthey afferma in una sentenza spesso citata, «Was der Mensch sei, sagt ihm nur seine Geschichte»[2]. Tuttavia, per Dilthey storia significa solamente storia culturale. Per sviluppare una comprensione adeguata della condizione storica dell’uomo, dovremmo prendere in considerazione però anche la storia naturale. Dopo tutto, in quanto unità psico-fisica, l’Homo sapiens sapiens è il prodotto storico di un’iterazione complessa tra sviluppi sia naturali che culturali. Inoltre, all’epoca delle scienze della vita, la storia naturale e quella culturale sembrano sempre di più sconfinare l’una nell’altra. Le biotecnologie quali l’ingegneria genetica, l’ingegneria metabolica e il trapianto di genoma trasformano gli organismi in artefatti culturali e nel tentativo di creare la vita artificiale (probabilmente il Santo Graal della biologia di sintesi), gli artifatti culturali manifestano via via maggiori qualità prima riservate alla vita organica.
In quanto segue argomenterò la tesi secondo cui l’ermeneutica di Dilthey, specialmente la sua analisi della triade Erleben, Ausdruck e Verstehen, offre ancora un proficuo punto di partenza per lo sviluppo di una bioermeneutica che non ha a che fare solamente con la comprensione umana e con l’interpretazione degli esseri, delle (inter)azioni e degli artifatti umani, ma che include anche la comprensione e l’interpretazione di e da parte di agenti non-umani. Il fatto che Dilthey nei suoi ultimi scritti ermeneutici distingua in maniera piuttosto dogmatica tra natura e cultura pare senza dubbio di primo acchito un ostacolo per lo sviluppo di una bioermeneutica ispirata al suo pensiero. Per esempio, Dilthey rifiuta esplicitamente la possibilità di una comprensione umana della vita delle piante: «Bedeutung oder Wert kann etwas nicht haben, von dem es kein Verstehen gibt. Ein Baum kann niemals Bedeutung haben» (GS VII, p. 259). La possibilità di una comprensione o di un’interpretazione da parte di agenti non umani non è poi nemmeno considerata da Dilthey. Eppure, sosterrò che gli scritti tardivi di Dilthey sull’ermeneutica contengono qualche traccia per lo sviluppo di una bioermeneutica. Svilupperò oltre queste tracce con l’aiuto della biofilosofia di Plessner e grazie a qualche riferimento ad alcuni recenti sviluppi negli ambiti della biologia dei sistemi e della neuropsicologia[3].
Innanzitutto, riprendendo il dibattito sulla demarcazione delle Naturwissenschaften e delle Geisteswissenschaften che ebbe luogo in Germania attorno al 1900, avanzerò la tesi secondo cui in quel dibattito erano in gioco varie dicotomie ontologiche, epistemologiche, fenomenologiche e normative che non combaciano. Dirò poi che queste dicotomie precludono una comprensione adeguata del carattere peculiare delle scienze della vita, a metà strada tra le scienze della natura e quelle umane (§ 1). Mostrerò in secondo luogo che Dilthey, nonostante il suo approccio per lo più dicotomico nel dibattito su tale demarcazione, a sua volta fondato sulla distinzione tra esperienza esteriore (prospettiva alla terza persona) e interiore (prospettiva alla prima persona), in qualche occasione ha riconosciuto lo statuto speciale delle scienze della vita, connesso con la «conformità di scopo (Zweckmäßigkeit)» immanente delle entità viventi (§ 2). In terzo luogo, dirò che la comprensione del finalismo immanente richiede l’esperienza da una prospettiva alla seconda persona, incarnata e interattiva (§ 3). Al fine di sostenere tale ipotesi, farò riferimento all’analisi di Plessner della triplice dimensione corporale della vita umana in Die Stufen des Organischen und der Mensch (§ 4). Nell’ultima parte, fornirò una breve visione d’insieme dei differenti tipi di interpretazione intraspecie, interspecie e intraorganica e traccerò i compiti che attendono la bioermeneutica (§ 5).
1. Le demarcazioni dicotomiche e le loro carenze
Nel dibattito tedesco tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento sulla demarcazione delle Naturwissenschaften e delle Geisteswissenschaften si possono individuare quattro gruppi di criteri di distinzione[4]. Da un punto di vista ontologico, le scienze naturali e le scienze umane hanno a che fare con diversi ambiti di realtà. Questa prospettiva ontologica sulla demarcazione può essere trovata per esempio nella tradizione cartesiana e kantiana, nella quale si faceva un’assoluta distinzione tra materia (Natur), intesa come una sostanza estesa e non-pensante, e ragione o spirito (Vernunft, Geist), compreso come una sostanza pensate e inestesa. A partire da questa prospettiva, una distinzione altrettanto fondamentale è fatta tra due classi di scienze che studiano queste due sostanze essenzialmente diverse. Da un punto di vista epistemologico, come lo si trova nella tradizione neo-kantiana, la demarcazione delle Naturwissenschaften e delle Geisteswissenschaften è soprattutto una differenza metodologica. Windelband, per sempio, distingue tra scienze nomotetiche, che aspirano a dare spiegazioni causali basate sulle leggi universali della natura, e scienze idiografiche, che provano a fornire descrizioni narrative di fenomeni unici. Nel caso di Dilthey, il punto di vista è fenomenologico. La sua distinzione di base riguarda due diversi tipi di esperienza: l’esperienza esteriore (äussere Erfahrung), basata sui sensi e sulla comprensione discorsiva, e l’esperienza interiore (innere Erfahrung or Erlebnis), fondata sull’introspezione e caratterizzata da una prospettiva e da una comprensione (Verstehen) alla prima persona. Mentre le scienze della natura dipendono esclusivamente dall’esperienza esteriore, le scienze umane interpretano il significato delle espressioni (Ausdrücke) della mente umana (date nell’esperienza esteriore) collegandole alle esperienze interiori. Queste esperienze interiori possono essere intese psicologicamente, come Dilthey tendeva a fare nelle sue opere anteriori al 1900, o possono piuttosto riguardare un significato (Bedeutung) indipendente, come Dilthey sostiene nei suoi scritti ermeneutici tardivi, ispirato dalle analisi fenomenologiche di Husserl nelle Logische Untersuchungen (1900/1901). Proprio come Husserl e il neo-kantiano Rickert, Dilthey distingue Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften anche da un punto di vista normativo, nel senso che le prime sarebbero prive di valore, mentre le seconde intrattengono una relazione speciale con valori logici, etici, politici, religiosi, estetici, etc., in senso descrittivo (Rickert) o propriamente normativo (Dilthey, Husserl). Il dibattito sulla demarcazione che ebbe luogo attorno al 1900 e che venne ripreso durante il Positivismustreit degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso ha contribuito in maniera fondamentale alla nascita dell’immagine dominante secondo cui esisterebbero due distinte culture con ambiti, metodi e scopi essenzialmente diversi, rappresentate dagli scienziati da un lato e dagli intelletuali letterati («Luddisti naturali») dall’altro lato[5].
Questa immagine, tuttavia, è problematica per diverse ragioni. Benché i quattro gruppi di criteri siano in qualche modo correlati, essi non combaciano del tutto. Per esempio, all’interno delle scienze naturali, ci sono discipline che sono rivolte soprattutto alla generalizzazione (come la meccanica) e discipline che studiano fenomeni unici (come le spiegazioni astrofisiche sulla evoluzione dell’universo). Ciò riguarda anche le scienze umane: mentre gli storici primariamente individualizzano, i linguisti generali studiano le caratteristiche universali del linguaggio. E mentre qualcuno potrebbe dire che la meccanica è indipendente dai valori, questo non si può dire di certe discipline medica come la psichiatria. Inoltre, affermazioni di tipo causale non riguardano solo la natura ma possono essere estese all’ambito della mente (per esempio nel comportamentismo e in altre branche della “psicologia scientifica”), così come la natura può diventare il “soggetto” di una interpretazione ermeneutica, come accade in bioermeneutica.
In aggiunta, così come gli studiosi nell’ambito delle scienze umane non possono astenersi dall’esperienza esteriore (dopo tutto, nei loro studi si affidano a espressioni materiali della mente, come gli atti umani e gli artefatti culturali), gli scienziati che aspirano alla spiegazione causale non possono fare a meno dell’esperienza interiore nel senso che devono fare ricorso a modelli dotati di senso e metafore laddove progettano e interpretano le proprie ricerche[6]. Le metafore non solamente incarnano una specifica ontologia (nella misura in cui sono basate su un misto di ambiti d’origine e di scopo e sono per questo spesso tanto ambigue quanto produttive) ma portano anche con sé una “deontologia”, un certo tenore normativo[7].
Comunque, alla luce del mio interesse qui, la caratteristica più problematica della demarcazione dicotomica tra scienze della natura e scienze umane è che non lascia praticamente alcuno spazio per un importante terzo ambito della realtà tra la materia innata e la mente immateriale: il regno della “materia vivente”. Evidentemente, le scienze naturali, in particolare le scienze della vita neo-darwiniane, hanno acquisito un insieme di conoscenze estremamente vasto a proposito della materia vivente a livello molecolare. Inoltre, questa conoscenza ha permesso loro di manipolare sostanzialmente e persino di “progettare” gli organismi. Eppure, l’affermazione “avidamente riduzionista”[8] secondo cui impulsi, sensazioni, sentimenti, rappresentazioni e altre caratteristiche della vita non sono di fatto nient’altro che processi fisiologici pare gettare il bambino con l’acqua sporca. E l’affermazione ermeneutica, come formulata da Dilthey, secondo cui le cose viventi quali gli alberi non possono avere alcun significato, e non possono essere affatto comprese, sembra fare esattamente lo stesso.
2. Dilthey sulla conformità di scopo biologica
Nella misura in cui il nome di Dilthey sembra essere inestricabilmente legato alla distinzione dicotomina tra scienze della natura e scienze dello spirito, è sorprendente osservare come in molti passaggi dei suoi scritti egli proponga inaspettatamente una divisione tripartita. Per esempio, nel saggio Die Entstehung der Hermeneutik (1909) egli scrive:
Es sind selbstverständlich […] dieselben elementaren logischen Operationen, die in den Geistes- und Naturwissenschaften auftreten. Induktion, Analysis, Konstruktion, Vergleichung. Aber darum handelt es sich nun, welche besondere Form sie innerhalb des Erfahrungsgebiets der Geisteswissenschaften annehmen. Die Induktion, deren Data die sinnlichen Vorgänge sind, vollzieht sich hier wie überall auf der Grundlage eines Wissens von einem Zusammenhang. Dieser ist in den physikalisch-chemischen Wissenschaften die mathematische Kenntnis quantitativer Verhältnisse, in den biologischen Wissenschaften die Lebenszweckmäßigkeit, in den Geisteswissenschaften die Struktur der seelischen Lebendigkeit.
Qui, Dilthey fa notare che tanto le scienze della natura quanto le scienze umane iniziano dalle stesse operazioni logiche elementari – induzione, analisi, costruzione e comparazione – e che queste operazioni hanno il loro fondamento nell’esperienza precedente di un nesso (Zusammenhang) ma che la natura di questo nesso è diversa nei diversi tipi di scienze[9]. Sorprendentemente, nella frase che segue Dilthey non distingue tra due, come ci si aspetterebbe, ma tra tre tipi differenti di nesso, e di conseguenza tra tipi di scienze: le scienze fisico-chimiche, che sono basate su una conoscenza matematica di relazioni quantitative; le scienze umane, che si fondano sulla conoscenza ermeneutica della struttura della vita psichica; infine le scienze biologiche, che si basano sulla conoscenza di un nesso di conformità di scopo (Zweckmäßigkeit).
Come Rodi ha notato, non si tratta di un passaggio totalmente isolato, dato che ne troviamo molti altri che contengono questa divisione tripartita, tanto nei lavori pubblicati quanto nel Nachlaß[10]. Per fare solo due esempi, si trovano riferimenti ai «drei Systemen von generellen Wahrheiten» che sono «drei große Ordnungen von Inhalten am Wirklichen» nei Beiträge zum Studium der Individualität (GS V, p. 272), e osservazioni sulla vita organica in quanto livello intermedio (Zwischenglied) tra la natura inorganica e il mondo storico nel suo tardivamente pubblicato Ausarbeitung der deskriptiven Psychologie (GS XVIII, p. 168). Benché Dilthey non elabori queste osservazioni sparpagliate in una teoria sistematica della vita organica, ciò non implica che egli non sviluppi alcuna idea riguardo alla Lebenszweckmäßigkeit. Queste appaiono nell’ambito della sua psicologia descrittiva e della sua ermeneutica, in cui concetti come Zweckzusammenhang (GS V, p. 207) e Wirkungszusammenhang (GS VII, p. 153) fanno parte delle nozioni teoretiche centrali. In ogni caso, la mancanza di una chiara distinzione in Dilthey tra il nesso biologico e quello ermeneutico si risolve in un discorso biologico-ermeneutico piuttosto ambiguo[11]. Qui due diversi approcci appaiono legittimi. Il primo, suggerito da Yorck e poi seguito da Heidegger e Gadamer, consiste nell’escludere tutti gli elementi biologici dall’ermeneutica e, facendo così, nel rinforzare la distinzione dicotomica tra scienze della natura e scienze umane. Questa strategia non solo offusca la dimensione biologica che è presente in ogni comprensione[12], ma – come risultato – finisce anche per bloccare la strada al possibile sviluppo di una bioermeneutica. La seconda strategia consisterebbe nel prendere sul serio le osservazioni di Dilthey sul carattere intermedio della vita organica tra la natura inorganica e il mondo storico e accettare la sfida di sviluppare una teoria della Zweckmäßigkeit biologica che colmi il presunto divario tra le scienze naturali e le scienze umane senza tornare indietro verso un “avido riduzionismo” o in direzione di un non meno “avido trascendentalismo”.
Come si è già detto, Dilthey – combattendo e in ultima analisi fallendo nel tentativo di portare a compimento la propria fondazione ermeneutica delle scienze umane – non ha esplorato in profondità questa “terza via” ma si è solamente limitato a farvi sporadicamente riferimento. Eppure, proprio perché non ha propriamente distinto tra il biologico e l’ermeneutico, si trovano nei suoi scritti ermeneutici numerose intuizioni che sono rilevanti per lo sviluppo di una bioermeneutica. Ciò implica che nel nostro tentativo di applicarle alla vita organica, rispettiamo, più radicalmente di quanto Dilthey non sia stato in grado di fare, le caratteristiche indipendenti del livello intermedio tra la natura inorganica e il mondo storico. Uno dei concetti ai quali si potrebbe pensare in questo contesto è l’analisi di Dilthey della «conformità di scopo soggettiva immanente (subjektive immanente Zweckmäßigkeit)» della vita psichica nelle Ideen, che sembra essere una versione elaborata dell’analisi di Kant della teleologia in natura nella Kritik der Urteilskraft[13]. In ogni caso, a differenza di Kant, che guarda alle nozioni teleologiche come a dei concetti meramente regolativi (ovvero non costitutivi), che non si riferiscono tanto a caratteristiche immanenti della vita organica quanto alle maniere soggettive d’interpretare i fenomeni biologici, l’approccio fenomenologico di Dilthey guarda a un nesso teleologico che è immanentemente presente nella stessa vita organica. Quando attribuiamo una teleologia interna alla vita organica, articoliamo un dato[14]. Ma nella misura in cui l’argomentazione nelle Ideen, nelle quali oppone l’approccio comprensivo delle scienze umane a quello esplicativo delle scienze naturali, rimane intrappolata nella dicotomia sopra menzionata, Dilthey può concepire il nesso teleologico della vita organica o come – da una prospettiva alla prima persona – una proiezione soggettiva e metaforica del nesso psichico sull’organismo, o come – da una prospettiva alla terza persona – una qualità oggettiva ipotetica che fino a ora manca di un (succifiente) riscontro empirico[15].
Fortunatamente, sviluppi più tardivi nella filosofia della scienza e recenti ricerche nell’ambito della biologia di sistema ci permettono di sviluppare le brancolanti intuizioni di Dilthey in maniera più proficua. Spesso nella filosofia della scienza di oggi si distinguono tre tipi di spiegazione scientifica. Accanto alla spiegazione deduttivo-nomologica che caratterizza le scienze naturali e la comprensione ermeneutica o narrativa che si trova nelle scienze umane, si attribuisce alle scienze biologiche un modello funzionale di spiegazione:
È caratteristico per un organismo il fatto di avere una certa struttura o organizzazione. L’organismo è orientato verso lo scopo congiunto della conservazione e della riproduzione e ognuna delle diverse parti dell’organismo ha una funzione nel senso che contribuisce al raggiungimento di questo scopo. I processi che avvengono in parti dell’organismo possono essere spiegati in termini del loro ruolo nella sopravvivenzo o nel benessere dell’intero organismo. […] Nel modello di sviluppo organico, la spiegazione è funzionale. Non ci si preoccupa di spiegare la causa di un fenomeno ma piuttosto del suo scopo. Il fenomeno A è spiegato mostrando che esso è funzionale a un altro fenomeno B. L’emergere dei polmoni, per esempio, può essere spiegato osservando che i polmoni garantiscono l’aspirazione di ossigeno, essenziale per la vita e per la crescita. Benché si creda che A (i polmoni) conducano a B (l’aspirazione dell’ossigeno), il punto della spiegazione non è che B è il risultato di A, ma che A ha un ruolo specifico rispetto a B e che B rende A intelligibile. Benché le relazioni causali siano presupposte, una spiegazione funzionale non è in sé causale. Mentre A è la causa di B, B non è la causa di A[16].
Il punto cruciale qui è che la funzionalità non può essere spiegata da un punto di vista meramente causale. In questo senso Kant aveva ragione nell’affermare che, secondo una prospettiva meramente causale, non ci sarà mai un Newton biologico che possa spiegare fenomeni teleologici come la generazione anche di un singolo filo d’erba[17]. Fenomenologicamente parlando, al fine di approcciare un organismo bisogna considerarlo da un altro punto di vista. Questa prospettiva deve prendere in esame il nesso teleologico che caratterizza l’organismo in quanto organismo. Ciò accade per esempio nell’attuale biologia di sistema. Dopo diversi decenni in cui, secondo una prospettiva “avidamente riduzionista”, l’enfasi in genetica era posta sulle determinazioni causali dell’organismo determinate dai geni, nell’attuale ricerca genetica ed epigenetica vengono in luce i limiti del determinismo genetico dando il via a un approccio funzionalistico. Il biologo di sistema Dennis Noble sostiene:
Livelli di organizzazione superiori, come tessuti, organi e sistema, obbligano e ordinano i livelli più bassi attraverso ciò che si potrebbe chiamare causalità verso il basso [...]. Vista dalla prospettiva dell’organismo o persino da quella del suo ambiente, il DNA è un database dal quale l’organismo estrae l’informazione richiesta per produrre le proteine di cui ha bisogno nelle giuste quantità e al posto giusto. Questa forma di causalità dal basso è messa in atto attraverso l’epigenetica: marcatura chimica del genoma per determinare quali geni sono usati o messi a tacere in un momento dato. I geni dunque non hanno molte possibilità di pensare a se stessi; essi sono più come “prigionieri” dell’organismo. [...] Come le canne di un grande organo (ci sono organi con tante canne quanti sono i geni nel genoma umano!), essi sono “suonati” in maniere diverse dalle diverse cellule, tessuti e organi del corpo al fine di produrre la “musica della vita”. E quando riusciamo a identificare i “programmi genetici” nel corpo, essi risultano essere la funzionalità stessa[18].
Degno di nota è che Dilthey – proprio come Noble – faccia ricorso a metafore musicali quando descrive il nesso della struttura psichica: «Die Erlebnisse verhalten sich, wie in einem Andante einer Sinfonie Motive auftreten, sie werden entwickelt (Explikation), und das Entwickelte wird zusammengenommen (Implikation)» (GS VI, p. 316). Comunque, rimane aperta la questione se simili metafore siano in grado di rendere giustizia alle qualità intrinseche della conformità di scopo organica immanente. Come si potrebbe rendere conto del fatto che questa conformità di scopo immanente delle vita organica è esperita se tanto la prospettiva alla terza persona che caratterizza la spiegazione causale della natura inanimata e la prospettiva alla prima persona che distingue la comprensione ermeneutica del significato si rivelano essere inadeguate? Questo ci dovrebbe spingere a rivolgere la nostra attenzione verso la prospettiva alla seconda persona.
3. La prospettiva alla seconda persona: tra funzionalità e intenzionalità
Il luogo in cui Dilthey si avvicina maggiormente alla comprensione della Zweckmäßigkeit biologica può essere forse individuato nella sua analisi della comprensione dell’azione umana in Das Verstehen anderer Personen und ihrer Lebensäusserungen (GS VII, pp. 205-227). Questa analisi è rilevante per il mio tema nella misura in cui Dilthey sottolinea il fatto che l’azione umana, per quanto non sorga dall’intenzione di comunicare, esprima ciò nonostante lo scopo (Zweck) che in essa è dato: «Eine Handlung entspringt nicht aus der Absicht der Mitteilung. Aber nach dem Verhältnis, in dem sie zu einem Zweck steht, ist dieser in ihm gegeben» (GS VII, p. 206). Nel contesto della comprensione umana dello spirito umano, l’analisi dell’azione di Dilthey rivolge una particolare attenzione ai suoi “difetti”. A differenza dell’espressione dell’esperienza vissuta (Erlebnisausdruck), come la si trova pre-minentemente nell’opera d’arte, l’azione umana è ir-reversibile, poiché esprime soprattutto relazioni regolari e non permette alcuna determinazione onnicomprensiva della vita interiore da cui proviene. Essa permette solamente ciò che Dilthey chiama «comprensione elementare» degli «atti elementari» come il sollevamento di un oggetto, il colpo di un martello, il taglio della legna con una sega, in breve gli atti che indicano la presenza di certi scopi (GS VII, p. 207). Anticipando la biofilosofia di Plessner (così come il comportamentismo di Wittgenstein e Ryle)[19], Dilthey sostiene che rispetto a questa classe di espressioni non si può distinguere tra gesto e contenuto spirituale, poiché sono una cosa sola:
Das Grundverhältnis, auf welchem der Vorgang des elementaren Verstehen beruht, ist das des Ausdrucks zu dem, was in ihm ausgedrückt ist. Das elementare Verstehen ist kein Schluß von einer Wirkung auf die Ursache. […] Wie beides [the sensory expression and the spiritual content, JdM], etwa die Gebärde und der Schrecken, nicht ein Nebeneinander, sondern eine Einheit sind, ist in diesem Grundverhältnis vom Ausdruck zum Geistigen gegründet (GS VII, p. 208).
Mentre questa comprensione elementare potrebbe avere un valore metodologico limitato per le scienze umane, essa sembra essere una descrizione riconoscibile e adeguata della nostra interazione con la vita organica. Mi sia permesso di dare un semplice esempio di una simile comprensione interspecie. Per molti anni, fino a quando non è morto di vecchiaia, io e la mia famiglia abbiamo avuto un bracco tedesco in casa, un cane vivace che amava correre e giocare nei campi e nei boschi vicino a casa nostra. Ogni volta che tornavo a casa, la seguente scena si presentava: appena il cane mi vedeva, mi salutava entusiasticamente e correva a prendere la sua corda giocattolo, per poi tornare e insistere affinché giocassi con lui. Generalmente il rituale si svolgeva nel seguente modo: il cane metteva la corda giocattolo di fronte ai miei piedi, cosicché la potessi prendere, ma appena provavo a farlo tentava di portarsela via. Quando gli riusciva, la corda giocattolo era messa nuovamente ai miei piedi e, quando ero più veloce di lui, dovevo lanciare la corda giocattolo lontano. Il cane andava dopodiché a riprenderla e il gioco sarebbe iniziato nuovamente e sarebbe continuato fino a quando o io o il cane non ne fossimo stati stufi.
Pare perfettamente sensato affermare che avevo una comprensione elementare di ciò che il cane voleva da me, non appena veniva da me con la corda giocattolo in bocca. È chiaro che questa comprensione è di genere fondamentalmente diverso rispetto a quella delle riflessioni del protagonista de À la recherche du temps perdu di Proust. Nel caso del cane, la comprensione del suo desiderio di giocare non è tanto una comprensione psicologica di un’intenzione e nemmeno la comprensione ermeneutica del significato di un gesto ma piuttosto una comprensione in (inter)azione incorporata (embodied). Non posso chiedere al cane che cosa vuole da me o immaginare quel che sta succedendo nel suo cervello ma non ce n’è nemmeno bisogno, poiché il suo audace comportamento così come il movimento avanti e indietro tra i nostri corpi che ne segue rende perfettamente chiaro quali siano l’intenzione del cane e il significato del suo comportamento. Il significato non è qualcosa di nacosto rispetto all’avanti e indietro della nostra interazione giocosa che ricostruisco attraverso un atto immaginativo alla prima persona per mezzo di un’analogia (so ciò che significa essere in una disposizione d’animo giocosa e dunque comprendo il comportamento del cane come tale) e nemmeno il risultato di una descrizione prospettica alla terza persona di una serie di movimenti corporali del cane, ma è l’interazione stessa. Qui, l’interpretazione è nella messa in atto corporale.
Ciò che caratterizza fenomenologicamente questa esperienza interattiva di conformità di scopo, è che sia il cane sia io esperiamo questa interzaione da una prospettiva alla seconda persona (nel caso del cane alla seconda animale[20])[21]. Lo scopo non è un dato o ascritto a priori ma si realizza nel corso dell’azione corporale. Visto da una prospettiva alla terza persona potremmo attribuire a posteriori una specifica funzionalità al comportamento giocoso, nel senso che gli atti elementari costituiscono insieme un intero dotato di scopo che ha una certa funzione rispetto al mantenimento del benessere dell’organismo (per esempio l’allenamento o l’evitare la noia). Considerato da una prospettiva alla prima persona, potrei esperire il mio giocare come un atto di intenzionalità e potrei anche ascrivere intenzioni coscenti al cane e provare a immaginarmi nella sua prospettiva. Ovviamente, in quale misura riuscirò in ciò dipenderà in gran parte dal grado di affinità. È più facile immaginare com’è essere un cane che gioca che immaginare cosa voglia dire essere un pipistrello che gioca, per non parlare di un’ameba o di un albero che giocano. E, ovviamente, in ognuno di questi atti immaginativi corriamo il rischio di proiezioni antropomorfiche. In ogni caso, il punto che voglio chiarire è che nel caso del mio giocare con il cane, le prospettive alla prima e alla terza persona hanno un carattere derivato (se non inadeguato) rispetto all’esperienza immediata di diventare parte dell’avanti e indietro dotato di scopo dell’interazione. Un’implicazione di ciò è che la nostra comprensione degli animali (e di forme di vita extraterrestri o artificiali, peraltro) dipenderà dalla misura in cui possiamo “procedere” in una praxis comune incorporata, sia questa una cooperazione pacifica come nel caso del mio giocare con il mio cane o una lotta violenta come in una interazione tra predatore e preda[22]. L’importanza della prospettiva alla seconda persona per la comprensione dell’interazione ermeneutica emerge anche nei recenti dibattiti teoretici in neuroscienze. Nei risultati di una recente ricerca sul ruolo funzionale della corteccia parieto-frontale nell’osservazione di azioni e nell’esecuzione di azioni nelle scimmie e negli uomini, Giacomo Rizzolati e Corrado Sinigaglia concludono che «benché vi siano diversi meccanismi attraverso cui si può comprendere il comportamento di altri individui, il meccanismo-parieto frontale è l’unico che permette a un individuo di comprendere l’azione di altri “dall’interno” e permette all’osservatore di cogliere alla prima persona gli scopi e le intenzioni motrici di altri individui»[23]. In una reazione critica, Leonhard Schilbach sostiene che l’altrimenti equilibrata analisi di Rizzolati e Sinigaglia manca di fare riferimento al carattere enattivo della cognizione, che sottolinea come la cognizione stessa sia il risultato dell’espolarazione e dell’appaiamento di un animale con il suo ambiente:
Ciò sembra essere più importante poiché un’estensione di questa considerazione all’ambito sociale suggerisce che la cognizione sociale è fondamentalmente differente laddove un individuo interagisce attivamente e direttamente con altri. In questi casi, un individuo adotta una “prospettiva alla seconda persona” nella quale le interazioni con altri possono essere pensate come essenziali e persino costitutive per la cognizione sociale, anziché meramente osservare gli altri e fare affidamento sul “coglimento alla prima (o alla terza) persona” dei loro stati mentali[24].
Schilbach conclude allora che riconoscere la funzione enattive della dimensione sociale della cognizione ha importanti implicazioni sia per la metodologia della ricerca neuropsicologica nell’interazione sociale sia per l’interpretazione di dati rilevanti. Come vedremo nella prossima sezione, ha anche importanti implicazioni nell’ambito della bioermeneutica.
4. La bioermeneutica incorporata di Plessner
In contrasto con le scienze naturali, dove si ha a che fare con oggetti esterni che ci rimangono sempre alieni[25], nelle scienze umane, la vita umana afferra se stessa: «Leben erfaßt hier Leben» (GS VII, p. 136). Per Dilthey, ci sono due maniere in cui questo afferrare avviene nella vita quotidiana. Rapportandoci all’esperienza vissuta del propri stati, spesso ci affidiamo all’introspezione (GS VII, p. 119). Eppure, l’ambito dell’introspezione è limito. I nostri stati coscienti sono in un flusso costante e subiscono cambiamenti a causa degli stati d’introspezione propriamente detti. Inoltre, l’introspezione non dà accesso all’esperienza interna di altri esseri. Comunque, grazie alla fondamentale espressività della vita umana, abbiamo accesso a un’enorme varietà di espressioni di esperienza vissuta, tanto di noi stessi quanto di altri esseri umani. Questo grande ambito di espressione umana (che va dal discorso, dal linguaggio corporeo, dagli abiti e dall’azione umana fino alle armi, gli edifici, i sistemi politici e i trattati filosofici) costituisce il vasto mondo della cultura umana che le scienze umane intendono comprendere:
Als Gegenstand der Geisteswissenschaften entsteht sie [die Menschheit - JdM] aber nur, sofern menschliche Zustände erlebt werden, sofern sie in Lebensäußerungen zum Ausdruck gelangen und sofern diese Ausdrücke verstanden werden. [...] Eine Wissenschaft gehört nur dann den Geisteswissenschaften an, wenn ihr Gegenstand uns durch das Verhalten zugänglich wird, das im Zusammenhang von Leben, Ausdruck und Verstehen fundiert ist (GS VII, pp. 86-87).
Secondo Helmuth Plessner, che esplicitamente si riferisce all’ermeneutica di Dilthey nel primo capitolo de Die Stufen des Organischen und der Mensch (1928), la forza dell’ermeneutica di Dilthey sta nella sua immanenza radicale, nel «erfahrungsmäßige[n] Sinn des Lebensbegriffs»[26]. Per Dilthey, la vita non è un’entità metafisica come è invece nell’“avido trascendentalismo” di vitalisti come Driesch, Bergson o Spengler, «sondern eine durch Anschauung und Intellekt und Phantasie und Einfühlungsfähigkeit erfahrbare und selbst wieder die Erfahrung ermöglichende, erzwingende Größe»[27]. In ogni caso, agli occhi di Plessner, Dilthey, nella sua analisi delle categorie della vita (Lebenskategorien), a causa della sua distinzione dicotomica tra scienze naturali e scienze umane, ha mancato di esplorare in maniera sufficientemente radicale la dimensione corporale del nesso dell’esperienza, dell’espresisone e della comprensione vissute:
Infolgedessen erzwingt der Gedanke einer Grundlegung der geisteswissenschaftlichen Erfahrung die Aufrollung von Problemen, die in die sinnlich-stoffliche, körperliche Sphäre des “Lebens” hineinreichen, erzwingt also eine Philosophie der Natur, in ihrem weitesten und ursprünglichsten Sinn verstanden[28].
Lo stesso Plessner ha sviluppato una simile filosofia della natura ne Die Stufen des Organischen und der Mensch[29]. I seguenti elementi della “Fortgang über Dilthey” di Plessner sono particolarmente rilevanti per la nostra tematica.
Innanzitutto, nella biofilosofia di Plessner, l’espressività non è più una categoria ristretta alla vita umana, come ra per Dilthey. Essa diventa invece – per utilizzare una formula pregnante di Gesa Lindemann – «eine Eigenschaft lebendiger Dinge überhaupt»[30]. Nella biofilosofia di Plessner, le cose viventi si distinguono dagli oggetti inanimati poiché tracciano da sé i propri confini: «Das lebendige Ding grenzt sich gegen sein Umfeld ab und zeigt den Sachverhalt der Grenzrealisierung»[31]. Per questa ragione, i fenomeni biologici come il metabolismo e la riproduzione possono essere compresi come realizzazioni espressive della vita. Poiché hanno confini, le cose viventi sono caratterizzate da una “doppia aspettività (Doppelaspektivität)”, hanno un dentro e un fuori[32]. Come si vede per esempio nel fenomeno del metabolismo, i confini permettono anche tutti i generi di scambio tra il dentro e il fuori.
Una seconda innovazione di Plessner è la sua distinzione, con l’aiuto della nozione di posizionalità (Positionalität) di tre differenti tipi di realizzazione dei confini. Mentre le piante sono la realizzazione dei loro confini, gli animali hanno, in una certa misura, il controllo sulla realizzazione dei propri confini. Gli animali sono coscienti del e possono agire sul loro ambiente. A livello ontico, questa abilità può essere descritta in termini di meccanismi di feedback che sono incorporati nel loro sistema nervoso (centrale). Inoltre, Plessner chiama la posizionalità degli animali “centrica”: essi (inter)agiscono con il proprio ambiente a partire dal loro centro. Anche gli esseri umani manifestano questo auto-controllo centrale ma allo stesso tempo mantengono una certa distanza dal loro centro. Per questa ragione Plessner chiama la posizionalità di tipo umano “eccentrica”. A causa di questa eccentricità, gli esseri umani, a differenza degli animali, non sono chiusi nel loro ambiente (Umwelt) ma sono caratterizzati da una certa apertura al mondo (Welt) che si manifesta nella grande varietà delle espressioni culturali e tecnologiche nel corso della storia umana. Gli esseri umani sono artificiali per natura, poiché sono caratterizzati da una necessità ontica di sublimare e trasformare simbolicamente i propri impulsi[33]. In altre parole, la storicità dell’uomo enfatizzata da Dilthey ha un fondamento biologico:
Durch seine Expressivität ist er also ein Wesen, das selbst bei kontinuierlich sich erhaltender Intention nach immer anderer Verwirklichungen drängt und so eine Geschichte hinter sich zurückläßt. Nur in der Expressivität liegt der innere Grund für den historischen Charakter seiner Existenz[34].
Tanto dall’esterno quanto dall’interno, l’unità psicofisica dell’uomo si esprime in maniera triplice: « Das Lebendige ist Körper, im Körper (als Innenleben oder Seele) und außer dem Körper als Blickpunkt, von dem aus es beides ist»[35]. «Er lebt und erlebt nicht nur, sondern er erlebt sein Erleben»[36]. Come risultato, il mondo umano è altrettanto triplice: l’uomo si trova situato in un mondo esteriore (Ausserwelt), in un mondo interiore (Innerwelt) e in un mondo socio-culturale (Mitwelt). Sebbene Plessner non parli esplicitamente di prospettive alla prima, alla terza e alla seconda persona, le tre dimensioni che costituiscono il mondo umano sono connesse con queste tre prospettive. Mentre il mondo interiore è connesso alla prospettiva alla prima persona e il mondo esteriore alla prospettiva alla terza persona, il mondo sociale è legato soprattutto alla nostra prospettiva alla seconda persona, alle interazioni con i nostri simili.
Non bisognerebbe comunque dimenticare che gli esseri umani non sono solamente eccentrici ma restano allo stesso tempo centrici: «Der Mensch ist weltoffen. Zweifellos, daran ist nicht zu zweifeln. Aber die Offenheit ist auf eine eigentümliche Weise verschränkt in die Umweltgebundenheit bei ihm»[37]. Inoltre, nella misura in cui noi restiamo il nostro corpo al di là dell’autocontrollo, abbiamo ancora anche una dimensione “vegetativa”. È per questa esistenza triplice che siamo capaci di comprendere non solo i nostri simili ma – come ho cercato di mostrare con la storia del mio cane che giocava – fino a un certo punto anche la vita animale e forse anche – in un senso più limitato – la vita vegetale. Dal momento che condividiamo certe caratteristiche di vita con altri tipi di esseri viventi è anche possibile descrivere e analizzare le categorie vitali di questi tipi. In tale contesto, Thomas Ebke parla della “svolta vitale” di Plessner:
Mentre Kant pensava che la condizione di possibilità che ci permette di avere esperienza degli oggetti è fondata nelle operazioni sintetiche del nostro intelletto, Plessner ci incoraggia a ricondurre questa condizione a una attività vitale eseguita sia da noi che dagli oggetti di cui abbiamo esperienza. Se in quanto esseri umani siamo capaci di concepire le cose viventi come cose viventi, ciò non è dovuto a un’unica attività cognitiva ma a un’attività che condividiamo con gli oggetti con i quali ci confrontiamo. E questa attività è l’attività della vita nel suo stesso diritto – la realizzazione dei confini. Così, la svolta o la capriola fatta da Plessner è una svolta vitalistica dato che noi stessi abbiamo già compiuto il movimento della vita nel momento in cui descriviamo le cose come cose viventi[38].
Conclusione: gli ormoni di Hermes
Guardando alla storia dell’ermeneutica nell’era moderna, possiamo osservare una continua espansione. Iniziata come disciplina in supporto all’esegesi teologica nel diciasettesimo secolo, Schleiermacher l’ha trasformata in una metodologia generale per l’interpretazione di ogni testo, mentre Dilthey l’ha espansa ulteriormente facendone una teoria generale per l’interpretazione di espressioni culturali. Inoltre, nell’opera di Dilthey, Heidegger e Gadamer l’ermeneutica è divenuta parte integrante dell’analisi fenomenologica dell’uomo come essere interpretante. Infine, grazie alla elaborazione di Plessner della tesi di Dilthey sulla espressività della vita, l’ermeneutica ha ampliato oltre il proprio scopo per includere i viventi che non sono compresi solamente come oggetti di interpretazione ermeneutica fatta da uomini ma come esseri interpretanti essi stessi.
Sulla base di questa bio-ontologia ermeneutica, possono essere distinti e analizzati diversi tipi di di comprensione e interpretazione bioermeneutica. Accanto alla tradizionale antropoermeneutica, una ricca varietà di ermeneutica degli animali e delle piante attende di essere investigata, tanto nel contesto della comunicazione intra-specie quanto in quello della comunicazione inter-specie. A un livello più basico, possiamo pensare anche a processi intra-organici d’interpretazione come l’interpretazione del DNA da parte dell’organismo al fine di produrre le proteine di cui ha bisogno nella giusta quantità e al giusto posto[39].
La bioermeneutica, come si è detto qui, non comincia dal nulla. Dalla scoperta del codice genetico nella seconda metà dello scorso secolo in poi è emersa l’idea secondo cui la vita è un «fatto controllato da simboli»[40]. Seguendo quest’idea sono emerse una serie di discipline teoretiche ed empiriche che indagano la dimensione simbolica della natura. Mentre la zoosemiotica studia la comunicazione intraspecie e interspecie, altre branche della biosemiotica si concentrano sullo studio di codici, segnali e segni a livello organico e molecolare. Una bioermeneutica diltheyana-plessneriana dovrebbe completare allora queste discipline emergenti con un’analisi ermeneutica di comprensione e interpretazione. Molti ermeneuti rifiuteranno di applicare i concetti di «comprensione» e «interpretazione» alla vita organica, affermando che questa non sarebbe altro che una proiezione antropomorfica (e antropocentrica). Senza dubbio questa critica è opportuna nel caso delle descrizioni riduzionistiche della vita, in cui le ascrizioni di caratteristiche umane a fenomeni organici (come accade, per esempio, ne The Selfish Gene di Richards Dawkins) non sono molto più che semplici metafore[41]. Comunque, come le ricerche in (zoo)semiotica dimostrano in maniera convincente, le forme di vita organica mostrano una ricca varietà d’interpretazioni al di là del mero condizionamento attraverso segnali. Gli animali non solo mostrano schemi complessi di comunicazione (attraverso espressioni facciali, il seguire con lo sguardo, la vocalità, la bioluminescenza e la comunicazione olfattiva o elettrica) ma gli elementi di comunicazione hanno spesso significati multipli e distinti che dipendono dal contesto e dagli schemi di comportamento. Lo scondizolio del nostro bracco tedesco, per riprendere ancora questo esempio, può avere diversi significati. Oltre alla predisposizione al gioco, può indicare eccitamento, attesa, ansietà, incertezza o sottomissione, che possono essere interpretati non solo dagli umani ma anche da altri cani e in certi casi anche da altri animali laddove i loro Umwelten combaciano. Benché la loro comprensione non abbia una dimensione semantica, essi esprimono e comprendono intenzioni laddove si mettono l’un l’altro in una prospettiva alla seconda-animale. I cani sono capaci anche di comprendere la meta-comunicazione come è il caso della loro cosidetta “espressione da gioco”, che segnala come un messaggio in apparenza aggressivo sia in realtà parte di un gioco di combattimento e non di un vero gesto aggressivo. E anche a livello intra-organico accadono processi interpretativi che esprimono e colgono pragmaticamente dei bisogni vitali. Compresa come una mera interpretazione sintattica, anche la “lettura” del DNA è parte di un processo bioermeneutico.
Va da sé che esistono differenze sostanziali tra l’interpretazione di un romanzo di Proust, la maniera in cui un cane interpreta le nostre carezze e il modo in cui un ormone, come un “Hermes molecolare”, trasmette un messaggio. Ma proprio per questo la bioermeneutica ha il compito, iniziando dall’analisi di diversi livelli di organico, di analizzare le maniere d’interpretazione – semantica, pragmatica e sintattica – concomitanti [42].
Lo scopo della bioermeneutica è tanto vasto quanto lo è quello della vita. E potrebbe persino includere forme di vita artificiale non appena le loro performance comportamentali diventeranno indistinguibili da quelle della vita organica. “Assecondare” le attitudini di gioco di un robot potrebbe diventare non molto diverso dal nostro giocare con il cane. Fintanto che la nostra forma di vita combacia con altre forme di vita naturali e artificiali – e il nostro riconoscimento potrebbe persino iniziare quando assistiamo alla riproduzione spontanea di molecole in un brodo primordiale – potremmo convenire con meraviglia con il motto di Dilthey secondo cui «Leben erfaßt hier Leben».